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Le macchinine

Uno dei miei giochi preferiti quando ero bambino, erano le macchinine. Ho dei bellissimi ricordi legati a questi giocattoli. Abitavamo in Toscana e, a dispetto del clima, avevamo la moquette in tutte le stanze. Questo aveva dei notevoli vantaggi per un bambino: si può stare in ginocchio per terra senza giocarsi le articolazioni (sia in estate che in inverno), i giochi producono poco rumore e le macchinine hanno un ottimo grip. Altro ricordo è legato alla “Wacky Race”, ovvero fare finta di avere le auto protagoniste della corsa ed immaginare le acrobazie del “diabolico coupe” o di “Penelope Pitstop”.

Ma che fine hanno fatto la “macchinine”? Tempo fa ho riesumato la mia scatola delle macchine, un contenitore di legno che contiene modellini che vanno dagli anni ’70 agli anni ’90.

Le marche principali sono Majorette, Matchbox, Baravelli e Lesney. Che fine hanno fatto queste ditte? Wikipedia è di aiuto:
Majorette: ha chiuso nel 2002, dopo avere delocalizzato la produzione in Thailandia ed avere abbandonato il metallo per la plastica. Qualche informazione si trova qui.
Matchbox: attualmente di proprietà della Mattel. Ha avuto forti difficoltà negli anni ’90, dopo avere portato la produzione in Cina, ed abbassato la qualità
Lesney: chiude battenti nel 1982, dopo una lunga ed onorata carriera.
Baravelli: non ho trovato informazioni su questa ditta. Mi riprometto di cercare meglio.

Ferrari GTO – Majorette Made in France
Dumper rigido Lesney del 1978
Locomotore Matchbox – 1979
Lancia Stratos – Baravelli
Cisterna Lesney – 1973

Vero, sono in metallo. Odorano di metallo, sono costose da produrre e probabilmente non rispettano gli standard di sicurezza (io ci ho giocato e sto scrivendo…). Ma sono ancora funzionanti (perfettamente) dopo almeno 10 anni di “sevizie” e 46 anni dalla produzione. A volte la qualità paga, vallo a fare capire ai mercati!

Considerazioni sul pentagramma

Una riflessione che mi è balenata in mente oggi, mentre ero in sala ad ascoltare musica col “pupo”. La situazione è la seguente: pupo che gioca ed io che gli “propino” un po’ di musica con lo smartphone. Oggi l’oggetto di interesse era una volpe, pertanto ho messo “Foxy Lady” ed una serie di altri brani del buon Jimi. Ad un certo punto la riproduzione casuale mi propone “The Sultans of Swing” ed io mi perdo brevemente tra le dolci note della melodia. Con un certo fastidio: c’è qualche cosa che non suona.

Rifletto sulla cosa e provo a darmi una risposta. Ho in mente il modo in cui questo brano (e tanti altri a dire il vero…) suonano sul mio vecchio impianto (rimpianto) Hi-Fi. Nulla di particolare, tutti componenti che potevano stare nelle mie tasche, ma era un buon impianto, e vale la pena ricordarne la genesi.

Anni ’90, sono a Bolzano. Fino a quel momento per me la musica era quanto riusciva a produrre il mio vecchio stereo portatile anni ’80 (**). Un aggeggio plurimodificato e totalmente in plastica dura: doppio deck con equalizzatore a 7 bande, radio AM/FM e casse a due vie. Cavolo! Niente concessione al digitale: tutto puramente analogico. A Bolzano frequento alcuni colleghi di babbo ed entro in contatto con il mondo degli appassionati di Hi-Fi. Decido di passare al digitale e mi compero un lettore CD della Pioneer modello PD7700. Piatto centrale senza vibrazioni, caricamento rovesciato. Lo abbino all’amplificatore del mio vecchio stereo anni ’80. Malgrado tutto la differenza con le cassette è enorme: niente fruscio, molti più dettagli, molte note alte. Libidine.
Passa il tempo e decido di fare il grande salto: prendo un amplificatore e dei diffusori decenti. Su consiglio dei colleghi di babbo (*), mi oriento su un Harman Kardon HK6200 e dei diffusori Infinity Reference 40. Libidine pura. Adesso le cose iniziano a funzionare molto bene. MI informo, leggo “Audio Review”, “Suono”. Ogni tanto faccio una capatina nei “DUE” negozi di Hi-Fi del mio quartiere. Sogno i diffusori elettrostatici ed un amplificatore QUAD. Vorrei tanto un “giracd” con convertitore separato. Intanto mi godo anni di musica fantastica: Dire Straits, Nirvana, Pink Floyd, Stevie Ray Vaughan, Supertramp, Metallica, tanta classica. Arriva anche una doppia piastra di registrazione della TEAC, per fare le cassette per la macchina.

Arrivato ad Ancona lo spazio ed il tempo per l’impianto calano. i diffusori si rovinano e li regalo ad un amico. L’impianto rimane fermo per tanto tempo fino a che non prendo un paio di diffusori B&W bookshelf e mi rimetto ad ascoltare qualche cosa. Intanto è cambiato il mondo. Il PC è pieno di MP3, la sera mi calzo un paio di cuffie e posso ascoltare fiumi di musica mentre programmo o scrivo. E l’impianto rimane spento. Ed il mio orecchio inizia a dimenticare cosa significhi ascoltare “bene” della musica.

Ormai sono passati tanti anni. Il PD7700 e la doppia piastra sono andati in discarica. L’amplificatore ha ricevuto due diffusori bookshelf nuovi ed è associato ad un ricevitore FM analogico della Revox. Lo uso quando spolvero ed andrebbe manutenuto: recapping e sostituzione dei potenziometri. Giuro che appena finiti i 3 progetti che ho pending da tre anni lo faccio. Mi piacerebbe riascoltare “the sultans of swing” in modo decente.
Mi consola pensare che tra i miei conoscenti ci sono almeno 3 o 4 persone molto attente alla qualità di quello che ascoltano. C’è anche un audiofilo nel senso “puro” del termine. Andrebbero protetti, come le specie in via di estinzione.

(*) I colleghi di babbo non erano audiofili. Erano dei semplici appassionati che cercavano di informarsi e spendere al meglio i soldi che avevano. Il primo amante di Harman Kardon e dei diffusori dinamici, il secondo amante delle cuffie: aveva delle Stax fantastiche. Con loro ho avuto il mio battesimo del “ben sentire”.
(**) A casa non è mai mancato “lo stereo”. Era un cubo che aveva radio, giradischi e cassetta. Due diffusori a due vie in legno. Per quello che doveva fare a casa era un ottimo impianto. Certo il giradischi era davvero economico, niente pesatura del braccio o antiskew ma aveva il vantaggio che potevo usarlo anche io. Cosa non da poco!

Il panino!

Questa sera ho mangiato un panino in autostrada, mentre guidavo. Ok, nulla di eccezionale.
Non prenderò il Nobel per questo. Eppure quel panino aveva un sapore speciale. Aveva il sapore dei tanti viaggi, fatti negli anni per raggiungere i Nonni nel Lazio. Viaggi fatti di partenze
“intelligenti” la sera tardi, per non trovare troppo traffico ed evitare il caldo. Viaggi di
finestrini aperti, di “carrello appendice”, senza troppi comfort. Con la radio fissa su “onda verde” ed il CB sul canale 5, per sentire i camionisti. Erano bei viaggi che ci vedevano tutti e tre in quello spazio minuscolo di statio-wagon, ad inventare storie e parlare per ingannare i 605km, per tenere sveglio papà. Ed i panini erano il pasto d’ordinanza, incartati nel tovagliolo e nella
stagnola, preparati per tempo da mamma (per l’andata) o da nonna (per il ritorno). Ed ogni morso erano km sotto le ruote, cartelli che si inseguivano: Modena, Sasso Marconi, Firenze, Fabro… Ed il mondo finiva li, noi tre, con il gatto, dentro quella scatola di metallo lanciata a 110km/h  in autostrada, tra la A22 e la A1. Non serviva altro. E quanti km sotto quelle ruote, due volte l’anno in estate con il sole che sembrava non tramontare mai, ed in inverno, con l’incognita della neve e del “tratto appenninico”. Quante emozioni e quanti bei ricordi di bambino. E questa sera quei panini avevano proprio lo stesso sapore, la stesse emozioni di
allora. Solo che ero io alla guida. In fondo non è cambiato nulla. Sempre stagnola, sempre
tovagliolo, sempre autostrada ed il piccolo mondo di metallo che si muove sopra il nastro di asfalto, sempre verso sud.